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laido cencio, lo rannodò in fretta, e, presolo per un dei capi, lo alzò, come una fionda, verso quegli ostinati, e fe’ vista di lanciarlo, gridando: “aspetta, canaglia!” A quell’atto tutti dieder di volta inorriditi; e Renzo non vide più che schiene di nimici, e calcagna che ballavano rapidamente per aria, a guisa di gualchiere.

Fra i monatti si sollevò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un “uh!” prolungato, come per accompagnare quella fuga.

“Ah ah! vedi tu se noi sappiamo proteggere i galantuomini?” disse a Renzo quel monatto: “val più uno di noi che cento di que’ poltroni”.

“Certo, posso dire ch’io vi debbo la vita,” rispos’egli: “e vi ringrazio di tutto cuore.”

“Niente, niente,” replicò il monatto: “tu lo meriti: si vede che sei un bravo giovane. Fai bene a ugnere questa canaglia: ugnili, estirpali costoro, che non valgono qualche cosa, se non quando son morti; che, per mercede della vita che facciamo, ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la morìa, ci vogliono fare impiccar tutti. Hanno a finire prima essi che la morìa;