dal muro; se qualche cosa ne spuntava, era tutto roba venuta in sua assenza. Si fece all’apertura (di cancelli non v’era più un segno); girò intorno un’occhiata: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna “nel luogo di quel poveretto,” come dicevano. Viti, gelsi, frutti d’ogni sorta, tutto era stato sgarbatamente schiantato o reciso al pedale. Apparivano però ancora i vestigi, dell’antica coltura: giovani tralci, in righe interrotte; ma che segnavano pure la traccia dei filari desolati; qua e là, messe e sterpigni di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo appariva disperso, soffocato, in mezzo a una nuova, varia e spessa generazione, nata e cresciuta senza aiuto di man d’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altre piante simili; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a suo modo, denominandole erbe cattive. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’un l’altro nell’aria, o a vantaggiarsi strisciando in sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una mescolata di foglie, di fiori, di frutti,