Pagina:I promessi sposi (1825) III.djvu/169

164

del fetido strame che copre il pavimento; e danno un’occhiata intorno intorno. Non v’era nulla d’intero; ma reliquie e frammenti di quel che v’era stato, quivi ed altrove, se ne vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, stracci di biancheria, fogli dei calendarii di don Abbondio, pezzi di stoviglie; tutto insieme o sparpagliato. Solo sul focolare si poteva scorgere i segni d’un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo. V’era, dico, un rimasuglio di tizzoni e tizzoncelli spenti, i quali mostravano d’essere stati, un bracciuolo di seggiola, un piede di tavola, un’imposta d’armadio, una panca da letto, una doga del botticello dove si teneva il vino che racconciava lo stomaco a don Abbondio. Il resto era cenere e carboni; e con di que’ carboni stessi, i guastatori, per ristoro, avevano scombiccherate le muraglie di fantocci, ingegnandosi, con certe berrette quadre o con certe chieriche, e con certe larghe facciuole, di figurarne dei preti; e ponendo studio a farli orribili e ridicolosi: intento che, per verità, non poteva fallire a tali artisti.

“Ah porci!” sclamò Perpetua. “Ah baroni!” sclamò don Abbondio; e, come scap-