Pagina:I promessi sposi (1825) III.djvu/133


129


Dopo aver sospirato a molte riprese, e poi lasciato scappare qualche interiezione, don Abbondio cominciò a brontolare più seguitamente. Se la pigliava col duca di Nevers, che avrebbe potuto stare in Francia a godersela, a fare il principe, e voleva esser duca di Mantova a dispetto del mondo; coll’imperatore, che avrebbe dovuto aver senno per l’altrui follia, lasciar andar l’acqua all’ingiù, non tanti puntigli: chè finalmente, egli sarebbe sempre stato l’imperatore, fosse duca di Mantova Tizio o Sempronio. Sopratutto la aveva col governatore, a cui sarebbe toccato di fare ogni cosa, per tener lontani i flagelli dal paese, ed era quegli che ce li attirava: tutto pel gusto di far la guerra. “Bisognerebbe,” diceva, “che fossero qui quei signori a vedere, a provare, che gusto è. Hanno un bel conto da rendere! Ma intanto, ne va di mezzo chi non ci ha colpa.”

“Lasci un po’ stare questa gente; che già non son quelli che ci verranno ad aiutare,” diceva Perpetua. “Codeste, mi scusi, sono di quelle sue solite chiacchiere che non concludono niente. Piuttosto, quel che mi dà fastidio....

“Che cosa c’è?”

Perpetua, la quale, in quel tratto di via,

t. iii. 9