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provò una e due volte di sollevarsi; sospirò, tentennò; alla terza, sorretto dall’oste, fu in piede. Quegli, reggendolo tuttavia, lo fece uscire d’intra ’l desco e la panca; e presa in una mano una lucerna, coll’altra, alla meglio, parte lo condusse, parte lo trasse verso la porta della scala. Quivi Renzo, al romore dei saluti che gli venivano gridati dietro dalla brigata, si volse in fretta; e se il suo sostenitore non fosse stato ben lesto a tenerlo per un braccio, la voltata sarebbe stata uno stramazzone; si volse, e con l’altro braccio che gli rimaneva libero, andava trinciando ed iscrivendo nell’aria certi saluti, a guisa d’un nodo di Salomone.

“Andiamo a letto, a letto,” disse l’oste, strascinandolo; gli fece imboccare la porta; e con più fatica ancora, lo tirò in cima dell’angusta scala di legno, e poi nella stanza che gli aveva fissata. Renzo, veduto il letto che lo aspettava, si rallegrò; guardò amorevolmente l’oste con due occhietti, che ora scintillavano più che mai, ora si ecclissavano, come due lucciole; cercò di bilicarsi sulle gambe; e stese la mano verso la guancia dell’oste, per prenderla fra l’indice e il medio, in segno di amicizia e di riconoscenza; ma non gli riuscì. “Bravo oste,” gli riuscì però di dire: