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mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m’è testimonio questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che m’infonde questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia Quegli che mi comanda e m’inspira un amore per voi che mi divora!”

A misura che queste parole uscivano dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da prima attonita e intenta; poi si compose, ad una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi che dall’infanzia più non conoscevano le lagrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, egli si coperse colle mani il volto e scoppiò in un pianto dirotto, che fu come l’ultima e più chiara risposta.

“Dio grande e buono!” sclamò Federigo, levando gli occhi e le mani al cielo: “che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perchè voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perchè mi faceste degno di assistere ad un sì giocondo prodigio!” Così dicendo, stese la mano a prender quella dell’innominato.