questi, per ordine di lui, entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccogliere ciò che fosse rimasto. Cure, che potrebbero forse indur concetto d’una virtù gretta, tapina, angustiosa, d’una mente invischiata nelle minuzie e incapace di disegni elevati; se non fosse in piede questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa lautezza, ed eresse a tanto costo dai fondamenti; per fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono dei già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, dei più colti ed esperti che potè avere, a farne incetta, per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trenta mila volumi stampati, e quattordici mila manoscritti. Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e proveduti da lui fin che egli visse; dopo, non bastando l’entrate ordinarie a quella spesa, furon ristretti a due); e il loro uficio era di coltivare varii rami di studio, teologia, storia, lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, coll’obbligo ad ognuno di publicare qualche lavoro su la materia assegnatagli; vi unì un collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana; un collegio di