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In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e perpetuo a non prendere per sè, dell’avere, del tempo, delle cure, di tutto sè stesso in somma, se non quanto fosse strettamente necessario. Diceva, come tutti dicono, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio de’ poveri: come poi mostrasse d’intendere in fatto una tal massima, si vegga da questo. Volle che si stimasse quanto poteva importare la spesa di lui e dei famigliari addetti al suo servizio personale; e dettogli che sei cento scudi, (scudo si chiamava allora quella moneta d’oro che, rimanendo sempre dello stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino) diede ordine che tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa patrimoniale a quella della mensa; non credendo che a lui doviziosissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio. Del suo poi era così scarso e sottile misuratore a sè stesso, che poneva cura a non dismettere una veste la qual non fosse logora affatto: unendo però, come fu notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d’una squisita mondezza: due abitudini notabili infatti, in quell’età sudicia e sfarzosa. Così pure, affin che nulla si disperdesse de’ rilievi della sua mensa frugale, gli assegnò ad un ospizio di poveri; e uno di