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una pistola, l’afferrò, la spiccò, e... al momento di finire una vita divenuta incomportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da una sollecitudine, per dir così, superstite, si lanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. Immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, il trambusto del castello al domani: ogni cosa sossopra; egli senza forza, senza voce, gittato chi sa dove. Immaginava il romore che ne sarebbe corso, i ragionamenti che se ne sarebber fatti quivi, d’intorno, lontano, la gioia de’ suoi nimici. Anche le tenebre, anche il silenzio gli facevano apprendere nella morte qualche cosa di più tristo, di spaurevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se si trovasse al giorno chiaro, fuori, in faccia alla gente: gittarsi in un’acqua e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando alternamente con una forza convulsiva del pollice il cane della pistola; quando gli cadde in mente un altro pensiero. — Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’era ragazzo, di cui parlano sempre tuttavia, come se fosse cosa sicura, se quella vita non c’è, se è una invenzione dei preti; che fo io? perchè morire?