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erte ripide, senza via e nude, salvo qualche cespuglio nei fessi e sui ciglioni.

Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove orma d’uomo potesse posarsi, e non ne sentiva nessuna brulicare al di sopra del suo capo. A un volger d’occhi scorreva tutta quella chiostra, i declivi, il fondo, le vie praticate quivi entro. Quella che, a gomiti e a giravolte, ascendeva al terribile domicilio, si spiegava dinanzi a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle balestriere, poteva il signore contare a suo agio i passi di chi saliva e porgli cento volte la mira. E anche d’un grosso drappello d’assalitori avrebb’egli potuto, con quella guernigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero o farne ruzzolare al fondo ben parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma nè pur nella valle, nè pur di passaggio, non ardiva por piede nessuno che non istesse bene col padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar l’impresa; ma