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cucina chiese alla fantesca se si poteva parlare al signor dottore. La fantesca vide le bestie, e come avvezza a simiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo le andasse ritirando, perchè voleva che il dottore vedesse e sapesse ch’egli portava qualche cosa. Il dottore giunse in fatti mentre la fantesca diceva: “date qui, e passate nello studio.” Renzo fece un grande inchino al dottore, che lo accolse umanamente con un “venite figliuolo,” e lo fece entrare con sè nello studio. Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale erano distribuiti i ritratti dei dodici Cesari; la quarta coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo una tavola gremita di allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all’intorno, e da un lato un seggiolone a bracciuoli, con un appoggio alto e quadrato, terminato agli angoli da due ornamenti di legno che si alzavano a foggia di corna, coperto di vacchetta con grosse borchie, alcune delle quali cadute da gran tempo lasciavano in libertà gli angoli della copertura che si incartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d’una lurida toga, che gli aveva servito molti anni addietro per perorare nei giorni di apparato, quando andava