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consegnò in mano a Renzo che, date e ricevute parole di speranza, uscì per una porticella dell’orto, onde non esser veduto dai ragazzi, che gli correrebbero dietro gridando: lo sposo! lo sposo! Così attraversando i campi, o come dicono colà, i luoghi, se ne andò per viottoli, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie così legate e tenute per le zampe a capo in giù, nella mano d’un uomo che agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che a tumulto gli passavano per la mente, e in certi momenti d’ira o di risoluzione, o di disperazione, stendendo con forza il braccio dava loro di terribili squassi e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate, le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.

Giunto al borgo, chiese dell’abitazione del dottore; gli fu indicata, e vi andò. All’entrare si sentì sorpreso da quella timidità che i poverelli illetterati provano in vicinanza di un signore e d’un dotto; dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati; ma diede un’occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in