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di ben più alto affare che don Abbondio, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo ripiego porsi a letto con la febbre. Questo ripiego, don Abbondio non lo dovette andare a cercare, perchè gli si offerse da sè. La paura del giorno addietro, la veglia angosciosa della notte, la paura di giunta avuta pur allora, l’ansietà dell’avvenire, fecero l’effetto. Affannato e balordo si ripose egli sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nelle ossa, si guardava le ugne sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremola e stizzosa: “Perpetua!” Ella giunse finalmente con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla non fosse stato. Risparmio al lettore i lamenti, le condoglienze, le accuse, le difese, i: “voi sola potete aver parlato,” e i: “non ho parlato,” tutti i garbugli in somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di sbarrar ben bene la porta, di non riporvi più il piede, e se alcuno bussasse, di rispondere dalla finestra che il curato s’era posto giù con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo ad ogni terzo scalino, “son servito,” e si pose da vero a letto, dove noi lo lasceremo.