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vero, provocata da lei) si vendicava ora col farle paura di quel minacciato castigo, ora col farle vergogna del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tuono di protezione più odioso ancora dell’insulto. In tali diverse occasioni, la voglia che Gertrude provava di uscire dalle unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questa voglia abituale diveniva tanto viva e pungente, da far parere amabile ogni cosa che potesse condurre ad appagarla.
In capo di quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina Gertrude stomacata e invelenita oltre modo per uno di quei tratti della sua guardiana, si andò a cacciare in un angolo della stanza, e quivi col volto nascosto nelle palme, si stette qualche tempo a divorare la sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altre facce, di udire altre parole, di esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le sovvenne che da lei dipendeva di trovare in loro degli amici, e provò una subita gioia. Dietro questa una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un egual desiderio di espiarlo. Non già che la sua volontà fosse fermata a