Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in quei sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e di affettuoso che da prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a svolgersi e a primeggiare nelle sue fantasie. Si era ella fatto nella parte più riposta della mente come uno splendido ritiro: quivi rifuggiva dagli oggetti presenti, quivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che ella poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva appreso nei colloquii colle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; quivi dava comandi, e riceveva omaggi d’ogni genere. Di tempo in tempo i pensieri della religione venivano a turbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, quale era stata insegnata alla nostra poveretta, e quale ella l’aveva ricevuta, non proscriveva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Spogliata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come le altre. Negli intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice sopraffatta da terrori