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il pavimento oscuro del pianerottolo, fece trepidare Lucia, come s’ella fosse scoverta. Entrati i fratelli, Tonio si chiuse l’uscio dietro: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con le orecchie tese, tenendo il fiato: il romore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia.

Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, imbacuccato in un vecchio berretto a foggia di camauro che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una picciola lucerna. Due folte ciocche che gli scappavano fuor del berretto, due folti sopraccigli, due folti mustacchi, un folto pizzo pel lungo del mento, tutti canuti e sparsi su quella faccia brunazza e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli nevicosi sporgenti da un dirupo, al chiarore della luna.

“Ah! ah!” fu il suo saluto, mentre si cavava gli occhiali e gli riponeva nel libricciuolo.

“Dirà il signor curato che son venuto tardi,” disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso.

“Sicuro che è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete che sono ammalato?”

“Oh me ne spiace!”