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640 | I Vicerè |
egli ne invitava: i galoppini, per suo ordine, rimorchiavano lassù, adescati dal marsala e dai sigari, dalla curiosità di entrare nel palazzo dei Vicerè, gonfii dell’importanza a cui erano assunti d’un tratto, individui di tutte le classi, bottegai, scrivani, uscieri, trattori, barbieri, gente più umile ancora, servi, guatteri, tutte le infime persone che per aver messo una firma dinanzi al notaro tenevano nelle loro mani una frazione della sovranità. Egli stringeva tutte quelle mani, accoglieva tutta quella gente con un «grazie dell’adesione!» dava del lei sopra e sotto; essi andavano via incantati, accesi d’entusiasmo, protestando: «E lo dicevano superbo! Un signore tanto alla mano!...»
Una sera, facendo il giro delle sale, Consalvo vide una faccia nuova, che rassomigliava tuttavia... a chi?... A Baldassarre, il suo antico maestro di casa! Ma i favoriti erano scomparsi, e invece sulle labbra già sbarbate dell’ex-servitore cresceva un grosso paio di mustacchi tinti come stivali.
— Grazie dell’adesione, — gli disse Consalvo, stringendogli la mano.
— Niente... dovere... — balbettò Baldassarre.
Uscito dalla casa del principe, il maggiordomo s’era buttato alla politica, aveva abbracciato la fede democratica, presiedeva ora una società operaia di mutuo soccorso. Giacchè il principino — Baldassarre adoperava ancora il diminutivo per designare l’antico padroncino — si presentava con programma democratico, egli aveva indotto i consocii ad appoggiarlo; così rientrava nel palazzo lasciato da servo con l’importanza di uno che portava un bel gruzzolo di voti. Seduto sopra una di quelle poltrone di raso che prima aveva avanzato ai signori, egli si guardava intorno ed ascoltava con la gravità dell’antico maestro di casa, era più serio e decorativo di tanti altri; un sindaco di provincia che gli stava a fianco gli disse:
— Da noi la riuscita è assicurata. E qui, professore, come vanno le cose?