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582 I Vicerè

a faccia; trasalì un momento, ma un’ora dopo l’incontro non pensò più a lui. Giovannino era suo cognato; più nulla restava così dei sogni antichi. Si doleva di questo? No! Pensava: «Che cosa mi manca per esser felice? Sono giovane, bella e ricca, tutti mi vogliono bene, tutti mi lodano, ho due angioletti di figli: di che mi lagno?» E nella misura delle proprie forze aveva fatto il bene: la sua mamma di lassù non doveva benedirla? La Beata non poteva esser contenta di quella lontana discendente?

Lo spirito della tentazione si serviva di arti molto sottili per turbarla in quella serenità. Forse erano i libri, le poesie, i romanzi, quelli che, certe volte, quando ella si sentiva più tranquilla e sicura e sorrideva di maggior beatitudine, facevano sorgere a un tratto una specie di nebbia che offuscava il suo bel cielo, e le davano un senso di sgominante tristezza e il rancore d’un bene perduto prima ancora che ella avesse potuto raggiungerlo. Era peccato leggere quei libri, seguire quelle visioni? Il confessore, i preti che la circondavano dicevano sì, che erano pericolosi; ma non riconoscevano forse nello stesso tempo che il pericolo, per lei, era molto più lontano, giacchè ella aveva un’anima retta e una mente sana e una coscienza purissima?... E poi, e poi, ella aveva rinunziato a tante cose; se avesse rinunziato anche a vivere con la fantasia, che le sarebbe rimasto?

Anche Giovannino leggeva molto: tutte le volte che veniva da Augusta le domandava: «Cognata, avete libri da prestarmi?» e ne portava via a casse, in mezzo alla roba di cui veniva a rifornirsi. In qual modo ammazzare il tempo quando non c’era da vegliare ai lavori della terra: la vendemmia, le seminagioni, i raccolti?... Un’altra cosa di cui si provvedeva, venendo in città, era il solfato di chinino. A Costantina, nei poderi della Balata e della Favarotta regnava la malaria; egli, veramente, nella stagione del pericolo se ne andava a Mellilli, sui colli Iblei, dove l’aria era balsamica; ma,