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578 | I Vicerè |
se voleva soccorrerlo, facesse pure; ma che in casa non lo lasciasse più venire.
Ed anche quella porta gli fu chiusa.
Egli aspettava che gli procurassero un posto di professore o di cassiere, tanto da vivere signorilmente senza far nulla; e siccome non lo contentavano, fermava per istrada le persone di sua conoscenza, narrava a modo suo i proprii casi:
— M’hanno spogliato, m’hanno ridotto alla miseria! Mio fratello il Benedettino m’aveva lasciato cinquecent’onze l’anno, e stracciarono il testamento, ne fecero uno falso! Il principe mio nipote m’ha rubato la mia grand’opera dell’Araldo Sicolo!... Mi chiudono la porta in faccia! A me, Eugenio di Francalanza! Gentiluomo di Camera! Presidente dell’Accademia dei Quattro Poeti!... Sanno forse chi sono io? Se veniste a casa mia, vi farei vedere quante medaglie e diplomi: uno scaffale intero!...
La sua megalomania, con la miseria, gli stenti, le umiliazioni, cresceva di giorno in giorno; egli annunziava:
— Il governo m’ha invitato a Roma per una cattedra dantesca. Ma io non ci vado! Fossi pazzo! Me ne andrò piuttosto in Alemagna, dove conoscono tutte le mie celebri opere, e la scienza è rispettata!... Il prefetto mi ha detto che il re mi vuole come professore di suo figlio. Io fare il maestro di scuola? Per chi m’hanno preso? Se lui si chiama Savoia, io mi chiamo Uzeda. Ehi, don Umberto, siete forse al buio?... — Poi, all’orecchio: — Potreste favorirmi cinque lire? Ho dimenticato il portafogli a casa...
Gliene davano due, una o anche mezza; egli metteva in tasca ogni cosa. I parenti, avvertiti di quello scandalo, si stringevano nelle spalle, o dicevano: «Bisogna finirla,» senza far poi nulla. Giulente e Teresa, di nascosto, lo soccorrevano come meglio potevano: ma egli aveva già preso l’abitudine di questuare, il mestiere era dolce e comodo, il passaggio del denaro dalla tasca altrui alla propria gli pareva naturalissimo; e poi un