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I Vicerè 575


— Se anche tu hai venduto l’opera, facciamo i conti! — disse al principe.

— Che conti? — rispose questi, quasi cascando dalle nuvole.

— Hai venduto il libro! A quest’ora il mio debito sarà estinto.

— Ci vuol altro!... I conti li faremo quando avrò tempo....

Don Eugenio tornò, assiduamente; ma il nipote un po’ gli diceva che aveva da fare, un po’ che gli doleva il capo, un po’ che stava per andar fuori. Lo zio non perdeva la pazienza; tornava ogni giorno, a rammentargli la promessa; anzi una brutta mattina gli disse, cascando sopra una seggiola:

— Senti, i conti li faremo quando sarai comodo; ma oggi non ho niente in tasca e sono stanco. Prestami qualche cosa.

— Come? Volete il resto? — esclamò il principe impallidendo. — Credete forse che siamo pari? Hanno venduto mezza dozzina di copie in tutto! Avete il viso di chiedere altri denari?

— Non ho come fare, — gli confidò il cavaliere, con un viso da affamato, guardandolo bene negli occhi.

— E venite da me? Che pretendete? Che vi dia da mangiar io? Perchè avete sciupato ogni cosa? Perché non avete pensato mai all’avvenire?

— Io ho da mangiare, capisci? — ripetè il cavaliere, con lo stesso tono di voce; e i suoi occhi parevano volersi mangiare il nipote.

— Andate da vostro fratello, da vostra sorella... che hanno l’obbligo d’aiutarvi... Perché venite da me?

Ma, spaventato dall’espressione del vecchio, gli voltò le spalle. Quando lo udì andar via, chiamò il portinaio per ordinargli di non lasciarlo mai più salire.

E il provvedimento riscosse l’unanime approvazione della servitù: veramente quel cavaliere non faceva onore alla famiglia, non tanto per quel che si diceva sul conto di lui, quanto per la condizione in cui era caduto. Il