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I Vicerè 573

trini; ma, come l’altra volta, buona parte s’era perduta per via. Egli aveva però riscattato l’edizione del primo Araldo che il tipografo teneva sotto sequestro, e con mille copie dell’opera se n’era tornato al suo paese per venderle e mangiarci su.

Faceva il conto senza il principe. Sistemato l’affare della lite, questi s’era pentito dell’accordo, e si lagnava d’essere stato defraudato, d’esser rimasto con un pugno di mosche, quando l’eredità di don Blasco doveva toccare tutta a lui. Il malumore, l’inappetenza, la debolezza di cui aveva sofferto tornavano a tormentarlo: sordamente irritato, incapace di confessarsi ammalato pel superstizioso timore di accrescere con la confessione la malattia, se la prendeva con la figlia che gli aveva imposto la transazione, dichiarava d’essere stato spogliato come in un bosco. Appena visto tornare lo zio, e udito che aveva qualche soldo, andò a chiedergli la restituzione del prestito. E siccome don Eugenio tirò in ballo la rinunzia ai suoi diritti, egli gridò:

— Che diritti e che storti? Sono stato spogliato! Si sono preso tutto! Io v’ho dato i quattrini; restituiteli, adesso che li avete.

Vista la mala parata, don Eugenio gli confidò:

— Non li ho! Ti giuro che non li ho! Ho quattro soldi per tirare innanzi; se ti do duemila e cinquecento lire, come mangio?

— Datemi allora le copie, — rispose pronto Giacomo.

— Ma sono la mia sola risorsa! Se tu me le togli, dove vado a sbattere? Che t’importa di un po’ di carta sporca?... Tu che sei tanto ricco? Per me è il pane!... Le venderò a poco a poco, avrò tanto da campucchiare...

Inflessibile, il principe volle presso di sè tutta l’edizione dell’Araldo Sicolo e del Supplimento, come garanzia del proprio credito.

Quantunque mezza Sicilia fosse inondata di quella pubblicazione, pure riusciva spesso a don Eugenio di collocarne qualche copia; e allora andava a prenderla dal