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490 I Vicerè

si vedeva in compagnia di gente che prima soleva evitare come la peste: parrucconi, politicanti del Gabinetto di lettura, sorci di farmacie, persone occupanti pubbliche cariche, tutto il codazzo del deputato. La posta gli portava ogni giorno una quantità di giornali italiani e francesi, e il libraio, ogni settimana, gli mandava grossi pacchi di libri che egli stesso andava a scegliere e ad ordinare.

— Qual altra pazzia adesso gli salta in capo? — diceva il principe, con tono sempre più acre, alla moglie; ma questa:

— Di che ti lagni? — rispondeva, conciliante. — Non si riconosce più; pare davvero un altro: benedetto questo viaggio, se lo ha fatto cambiare di nero in bianco!

Certi giorni, Consalvo non veniva a tavola; al cameriere che andava a chiamarlo rispondeva, dietro l’uscio, che aveva da fare; e allora il principe buttava via il tovagliolo, stringeva i denti, quasi scoppiava dinanzi ai lavapiatti che assistevano al pranzo. Teresa, a un segno della principessa, andava a cercare il fratello e insisteva tanto, con voce dolce, con persuasioni amorevoli, finchè egli apriva.

— Perchè non vieni? Sai che al babbo dispiace...

— Perchè ho da fare, sto scrivendo, non posso perdere il filo...

— Lascia di scrivere, contentalo, fratellino!... Hai tanto tempo per studiare! Altrimenti, potrebbe parere che tu lo faccia apposta, che tu l’abbia con lui... o con la mamma...

— Io non l’ho con nessuno. Vedi che sto scrivendo?... — infatti la scrivania era piena di carte e di libri aperti.

E quando finalmente veniva a tavola, il principe gonfiava, gonfiava, gonfiava, vedendo il figliuolo taciturno e ponzante come un nuovo Archimede.

— Mangerò solo, se debbo vedere quella faccia da funerale! Tutto il giorno quella faccia ingrottata! È una