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484 I Vicerè

carattere e la bontà del cuore; la baciava e l’abbracciava dinanzi a tutti, anche in conversazione; vegliava su lei come una vera mamma.

Era gelosa e scrupolosissima; non permetteva che oltre i libri di religione la figliastra leggesse cose capaci di guastarle la testa; nè che, dinanzi alla giovane, tenessero certi discorsi, per paura che le stesse parole le contaminassero il pensiero. Stava perciò sulle spine quando la cognata Lucrezia narrava certe storie di concubinaggi, di separazioni coniugali, di nascite illegittime. Cominciava allora a tossire per dar sulla voce a quella stravagante malaccorta; e se la tosse non bastava, mutava discorso bruscamente, con un certo modo tutto suo fatto apposta per richiamare l’attenzione sulle cose dalle quali voleva invece stornarla. Ma Lucrezia non si accorgeva di nulla, e anzi non commetteva la sconvenienza di dire spesso alla nipotina, a proposito ed a sproposito, ma più spesso quando si lagnava di Benedetto: «Bada a chi piglierai per marito!» Oppure: «Apri gli occhi, quando sarai maritata?...» La principessa diventava di mille colori, alzava gli occhi al soffitto, facendo sforzi straordinarii per contenersi, per non dire il fatto suo a quella pazza a cui il Signore aveva fatto bene di non dar figlie, se intendeva così l’educazione delle ragazze. «Cognata!... Lucrezia!...» ma nulla serviva, tanto che una volta la principessa mise carte in tavola:

— Scusa, cugina; ma questi discorsi mi sembrano fuor di luogo. Teresa si mariterà quando sarà tempo, e ci penserà suo padre, non dubitare: a me non piace la moda d’oggi, di parlar di queste cose alle ragazze....

Teresa, con gli occhi bassi e le mani in grembo, pareva non ascoltare; Lucrezia ammutolì e andò via dopo un poco, senza salutar nessuno. Ma un altro parlava spesso di cose scabrose e la principessa doveva tenerlo in riga: il cavaliere don Eugenio. Appena saputo l’arrivo del fratello e del nipote, era corso da loro per ricominciare il discorso dell’Araldo Sicolo. Il duca,