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I Vicerè 481


II.


Il ritorno del principe, con lo zio duca, la moglie e la figlia, al principio dell’inverno, diede nuovo alimento alla pubblica curiosità. Aspettavano tutti di vedere in viso questa famosa principessina della cui bellezza si parlava tanto; ma quantunque l’esagerazione delle lodi anticipate avesse disposto la gente alla diffidenza, pure la realtà lasciò molto indietro ogni immaginazione. La bellezza bianca e bionda, fine, delicata, quasi vaporosa della fanciulla, non aveva riscontri nella famiglia dei Vicerè. La vecchia razza spagnuola mescolatasi nel corso dei secoli con gli elementi isolani, mezzo greci, mezzo saracini, era venuta a poco a poco perdendo di purezza e di nobiltà corporea: chi avrebbe potuto distinguere, per esempio, don Blasco da un fratacchione uscito da lavoratori della gleba, o donna Ferdinanda da una vecchia tessitrice? Ma come, nella generazione precedente, s’era vista l’eccezione del conte Raimondo, così adesso anche Teresa pareva fosse venuta fuori da una vecchia cellula intatta del puro sangue castigliano. Alta, magra di spalle, con una vita che le sue due mani quasi arrivavano ad accerchiare e che rendeva più vistosa la curva dei fianchi, Teresa possedeva un'istintiva eleganza, una nobile grazia di portamento, ancora non del tutto liberata dall’impaccio della collegiale, fino a qualche mese addietro costretta nella goffa uniforme. Nei primi giorni, quando ella cominciò ad uscire in carrozza, accanto alla madrigna, la gente si fermava sui marciapiedi, l’aspettava al varco, dinanzi al portone del palazzo, per figgerle gli occhi addosso, a bocca aperta: ella pareva non accorgersi di quella curiosità indiscreta, non guardare anzi nessuno.

In casa, naturalmente, erano venute a trovarla prima di tutte le zie, e Lucrezia s’era quasi attaccata alle gonne della nipote, l’accompagnava

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