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462 | I Vicerè |
fargli visita, udirono che dava a costei del voi, lessero in viso a donna Isabella le sofferenze espiatorie. Ella era mutata oltre che nelle fattezze anche nei modi: parlava adagio, evitava di guardare il marito, pareva timorosa di spiacergli perfino con la sola presenza. E Raimondo non nascondeva i proprii sentimenti verso di lei: quel voi era già molto eloquente, ma egli affettava di non rivolgerle la parola, di non udire quel che ella diceva: quando andò a vedere il fratello infermo le disse, in presenza dei parenti:
— Non occorre che veniate anche voi.
Ora il Babbeo, che non ragionava più, alla vista del fratello ebbe un assalto di manìa furiosa. Con gli occhi stravolti, coi capelli arruffati sul viso scarno e pauroso, si mise a gridare:
— Assassini! Assassini!... Aiuto!... I prussiani!... Vogliono avvelenarmi!...
Gridò così tutta la notte, delirante; ma, cessata la crisi, l’idea rimase fissa, incrollabile. E per paura del veleno, colla manìa della persecuzione, non schiuse più bocca: tutte le volte che gli si appressavano per dargli del cibo stringeva i denti, urlava, trovava nelle braccia spaventosamente magre la forza di respingere i tentativi di fargli ingoiare un sorso di brodo o di latte.
— Aiuto!... Bismarck! assassino!...
Lucrezia gli si metteva accanto, lo prendeva per mano, gli domandava:
— Ma di chi hai paura? Non ci riconosci?... Credi che ti voglia avvelenare io? O Giacomo? O Raimondo?...
Il pazzo sorrideva d’incredulità, ma quando ritentavano di fargli prendere un boccone, per prolungargli di qualche giorno la vita, perché non morisse di fama, ricominciava a urlare: — Assassino!... Aiuto!... Assassino!...
Una sera, mentre don Blasco stava per uscir di casa insieme col professore, il cocchiere del principe venne a dirgli, col fiato ai denti: