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scorpacciate di roba indigeribile. Una notte d’estate, il cameriere spaventato da un vomito nerastro e da una diarrea sanguinolenta, mandò il figliuolo al palazzo, per avvertire la famiglia.

All’arrivo del principe e alla proposta di mandare a chiamare un medico, l’infermo gridò che non voleva nessuno, che s’era rimesso interamente. Ma adesso tutti comprendevano che il caso era grave. Lucrezia, la compagna della sua fanciullezza, ebbe un bell’insistere per dimostrargli la convenienza di una visita medica; egli minacciò di chiudersi in camera e di non ricevere più nessuno. Ma il suo polso scottava dalla febbre. Per vincere quell’ostinazione dovettero ricorrere a un artifizio, come con un fanciullo o con un pazzo: finsero che un ingegnere dovesse rilevar la pianta della casa e introdussero così un dottore in camera sua. Il dottore scrollò il capo: la condizione dell’ammalato era molto più grave che non credessero. A trentanove anni egli se ne moriva: il sangue vecchio e impoverito dei Vicerè si dissolveva, non nutriva più le flaccide fibre. Per tentar di combattere la discrasi, una cura e una dieta severissima erano necessarie; ma il maniaco non ascoltava nessuno, tanto meno i parenti. Se essi insistevano, egli gridava: «Non la volete finire?» Fittosi in capo che stava benissimo, se coloro pretendevano per forza che fosse ammalato voleva dire che desideravano, che aspettavano la sua morte. Perchè? Per raccogliere l’eredità! Egli confidava questo al cameriere; gli diceva, quando gli Uzeda andavano via:

— Credi che costoro vengano qui per amor mio? Vengono per la roba! Un’altra volta dirai loro che non ci sono.

Ma la sua roba era già bell’e andata. Dapprima per le speculazioni stravaganti che avevano rovinato la terra, poi per le spese matte di libri e d’ordegni, più tardi per le ruberie del fattore; quand’egli non aveva voluto veder le Ghiande neppure da lontano, s’era messo a fare qualche debituccio. Senza stupirsene, senza inda-