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I Vicerè 453

un casus belli. «Il nostro dovere....» Ma, mentre spiegava il dovere dell’Italia, venne un servitore di casa Uzeda. Il principe mandava a chiedere notizie dello zio e nello stesso tempo l’avvertiva che Ferdinando stava molto male, e che era bene fargli una visita. Don Blasco, a cui premeva sopra ogni cosa udire il verbo del suo nuovo amico, rispose:

— Va bene, va bene; domani ci andrò....


IX.


Ferdinando deperiva da un anno. Nel viso emaciato, negli occhi gialli, nelle labbra bianche, gli si leggeva da un pezzo un malessere secreto, un’intima sofferenza; ma, come s’era creduto affetto da tutti i mali quando stava benissimo, così adesso che qualcosa si disfaceva nel suo organismo, se gli domandavano che avesse, rispondeva, seccato:

— Nulla! Che ho da avere? Volete che m’ammali apposta?

E rispose una mala parola al principe il giorno che questi gli consigliò d’andarsene un poco alle Ghiande a respirare l’aria sana della campagna. Non voleva più sentire neppur nominare la sua terra. I libri che gli erano costati tanti quattrini s’impolveravano e tarmavano negli scaffali, gli strumenti s’arrugginivano e si rompevano; solo il podere prosperava, adesso che egli non sperimentava più novità. Incaponitosi a negare le sue sofferenze, i dolori di stomaco, i disturbi viscerali, li attribuiva a cause fantastiche: alla poca cottura del pane, allo spirare dello scirocco, al fresco della sera; ma egli cadeva in una tristezza lugubre, in una funebre ipocondria. Per lunghe e lunghe giornate non diceva una parola, non vedeva anima viva: chiuso nella sua camera, buttato sul letto, se ne stava immobile a seguire il volo delle mosche; quando la crisi passava, faceva grandi