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scutere calorosamente, lo chiamò. Parlavano delle soppresse corporazioni religiose, e il professore non voleva credere che le rendite di San Nicola toccassero certi anni il milione di lire.

— Sissignore, — confermò don Blasco. — Era il più ricco di Sicilia e forse di tutto l’ex-regno.

Allora il professore si scagliò contro i monaci, i preti, i parassiti d’una società che per buona sorte s’era finalmente «seduta sopra altre basi.»

Da quel giorno don Blasco prese l’abitudine di frequentare la nuova farmacia. Vi bazzicavano i liberali più arrabbiati i quali gridavano contro il governo, come quegli altri retrogradi, ma per una ragione diversa: perchè era un governo di conigli, di lacchè della Francia, di lustrastivali di Napoleone III: perchè perseguitava i patriotti veri e faceva il gesuita nella questione romana. Gli rinfacciavano Aspromonte e Mentana; ma Roma doveva essere italiana a dispetto di tutti, o sarebbero scesi in piazza a ricominciar le schioppettate. «O Roma o morte!» vociferava il professore, il quale aveva sempre notizie di guerre e di moti rivoluzionarii pronti a scoppiare, e don Blasco, tra le grida generali, sentenziava:

— Il Santo Padre dovrebbe pensarci a tempo, con le buone, e rammentarsi del Quarantotto; chè se allora non dava ascolto ai retrivi, oggi sarebbe il Presidente rispettato della Confederazione italiana!

— Con le buone? — gridava il professore. — Sante cannonate vogliono essere! Il sangue di Monti e Tognetti è ancora fumante! Ci vuole il cannone per abbattere l’antro del fanatismo!

Un giorno, entrò dal padron di casa con un’aria gloriosa e trionfante:

— Questa volta ci siamo! La guerra è pronta!

Don Blasco, turbato dalla notizia, poichè temeva che d’una guerra fosse minacciata l’Italia, si rassicurò quando l’inquilino gli riferì che l’elezione d’un principe tedesco al trono di Spagna era considerata dalla Francia come