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I Vicerè | 449 |
La Sigaraia, Garino e le ragazze approvavano, rincaravano la dose, parlavan male al monaco di tutta la parentela, affinchè egli lasciasse loro ogni cosa. E lo servivano come un Dio, si precipitavano ad un suo cenno, camminavano in punta di piedi quand’egli riposava, gli tenevano compagnia fino a tarda notte se non aveva sonno, lo accompagnavano al Cavaliere, gli lodavano le sue culture, le sue fabbriche, la riuscita di tutte le sue speculazioni.
Una di queste, però, era venuta corta al Cassinese. Il Cavaliere era attaccato, da levante, a un altro fondo del demanio ancora invenduto, e la linea del confine, consistente in un’antica siepe di fichi d’India, in molti punti aveva soluzioni di continuità. Don Blasco, facendo costruire un bel muro sodo e alto, irto di rovi e di cocci di bottiglie, s’era appropriato qua e là molti ritagli di terra; a un certo angolo, dove non restavano più tracce della siepe, aveva annesso al Cavaliere un bel tratto dell’altro fondo. Ora la cosa, venuta in chiaro all’Intendenza di Finanza, gli aveva fatto piovere in casa certa carta bollata, per cui il monaco s’era messo a sbraitare come ai bei tempi contro i ladri Italiani, e quasi quasi voleva riconciliarsi coi reazionarii della farmacia.
— A me l’accusa d’usurpazione? Se la proprietà di San Nicola arrivava fino alle vigne? Vogliono insegnare a me qual era la proprietà del convento, cotesti ladri che hanno spogliato un regno?
Garino aggiungeva il resto; ma poichè le chiacchiere non facevan andare indietro i reclami del Demanio, e una perizia avrebbe potuto legittimarli, l’ex-confidente di polizia, vedendo che il monaco ci s’arrabbiava, gli disse un giorno:
— Vostra Eccellenza perchè non ne dice una parola a suo fratello il deputato?
Don Blasco non rispose. Era già stato dal duca.
Da anni ed anni non rivolgeva più la parola al fratello, da un tempo più lungo ancora lo vituperava in pubblico e in privato; don Gaspare dunque rimase, ve-
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