d’uso giornaliero. Nella notte tornò il maestro di casa per avvertire che l’alloggio era trovato, e il domani all’alba tutti scapparono dal Belvedere dove il colera già divampava. La casa, alla Viagrande, s’era trovata grazie alle relazioni ed ai quattrini del principe di Francalanza: nondimeno, era una catapecchia consistente in tre cameracce e due stanzini a pian terreno, povera abitazione d’un bottaio, dove i «Vicerè» furono molto contenti di potersi ficcare. Grazie al nome di Uzeda, l’entrata in paese fu loro consentita, quantunque venissero da un luogo infetto; ma, una volta dentro, il principe, il duca, don Blasco si misero a gridare che non bisognava lasciar passare nessun altro, se non si voleva la rovina della Viagrande. Infatti l’epidemia decimava non solamente la popolazione rimasta in città, dove si contavano fino a trecento morti il giorno e non c’era più consorzio civile, nessuna autorità, nè deputati, nè consiglieri, nè niente, ma diffondevasi per la prima volta con violenza straordinaria nel Bosco scampato a tutte le altre invasioni coleriche: era al Belvedere, a San Gregorio, a Gravina, alla Punta, guadagnava le case sparse, non risparmiava i casolari perduti in mezzo alle campagne; e non soltanto i poveri diavoli morivano, ma le persone facoltose, i signori che s’avevano ogni sorta di riguardi; talchè la gente atterrita fuggiva da un paesuccio all’altro, come poteva, sui carri, a cavallo, a piedi; ma chi portava addosso il germe del male cadeva lungo gli stradali, si torceva nella polvere e moriva come un cane: i cadaveri insepolti, cotti dal torrido sole estivo, esalavano pestiferi miasmi, mettevano il colmo all’orrore; e i fuggiaschi che arrivavano sani e salvi ai luoghi ancora immuni erano accolti a schioppettate dai terrazzani atterriti; o, se riuscivano a trovare un rifugio, comunicavano ai sani la pestilenza. La siccità aggiungevasi a render disperate quelle tristi condizioni; tutte le cisterne erano asciutte, non si poteva far pulizia, c’era appena di che dissetarsi. Il principe, alla Viagrande, pagava una lira ogni brocca d’acqua;