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ed esclamava, con voce rotta: «Figlia mia! Figlia mia!... Se il Signore mi avesse concesso una figlia come te, non sarei rimasta sola al mondo!... Il Signore ti conservi sempre all’affetto di tua madre.... Figlia! Figlia mia!...» tanto che la principessa Margherita, molto impressionabile, si metteva a piangere anche lei. Col tempo, nondimeno, quel grande dolore si calmò, divenne più composto, tale da consentirle di occuparsi delle cose mondane. Suo marito l’aveva lasciata erede universale d’una discreta sostanza, talchè ella non aveva da inquietarsi per l’avvenire; piuttosto, non sapendo come disbrigare gli affari dell’eredità, rivolgevasi al cugino principe, il quale glie li metteva in piano. Pertanto ella veniva adesso tutti i giorni al palazzo, certi giorni più d’una volta; ma, quantunque non avesse affari, andava pure spesso da Lucrezia, dalla «zia» Ferdinanda e dalla «cugina» Isabella. In casa di costei tuttavia, a causa del lutto, non compariva il lunedì, giorno nel quale la contessa «riceveva».

Quest’uso di ricevere in un giorno determinato era una gran novità della quale si discorreva molto. Donna Isabella, che non s’appagava del trionfo d’una sola sera e voleva piegare le ultime ostinate oppositrici, l’aveva introdotto, riuscendo così a dare al suo salotto un tono speciale, un’importanza straordinaria, tale che le più restie brigavano finalmente l’onore di esservi ammesse. Così, dopo appena tre anni che era venuta in una volgare camera d’albergo, moglie della mano manca, osteggiata da tutti, ella troneggiava in quell’inverno del 65, autentica contessa di Lumera, fra una corte di ammiratori.

— Grazie! Grazie!... — diceva a Raimondo, gettandogli le braccia al collo e stringendolo a sè. — Tu l’hai voluto e ottenuto!... Grazie! Grazie!...

Egli restava di marmo sotto quelle carezze. Vinta la partita, cessata la febbre che lo aveva animato contro le difficoltà, i contrasti e le opposizioni d’ogni genere, faceva il conto di quanto gli costava quel risultato. Con-