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per dargli la Palmi! Decine, centinaia di testimonii affermavano che il contino mai e poi mai aveva voluto prender moglie: prima di tutti la parentela, il principe, le sorelle, i cognati, gli zii, le cugine; poi gli amici, poi la servitù, poi tutta la città. Ma per ottenere lo scioglimento del matrimonio bisognava dimostrare che all’atto di pronunziare il che lo legava per sempre don Raimondo avesse provato un timor grave: e allora il cavaliere don Eugenio era venuto innanzi al magistrato per testimoniare che la principessa sua cognata aveva fatto accompagnare il figliuolo alla parrocchia da due campai armati, i quali, se egli avesse risposto no, dovevano legarlo, buttarlo in fondo a una carrozza che stava ad aspettare vicino alla chiesa e portarlo in campagna per usargli le maggiori sevizie. Dai feudi di Mirabella erano venuti i due campai a confermare la testimonianza, e il cocchiere l’avea suffragata per suo conto, e il sagrestano pure. Così il tribunale aveva fatto giustizia.

E certa gente — Pasqualino non se ne dava pace! — pretendeva che quelle testimonianze fossero false, che i campai fossero stati pagati, che don Raimondo avesse dato una bevuta di trecent’onze allo zio don Eugenio! Quasi che don Eugenio Uzeda di Francalanza, Gentiluomo di Camera di Sua Maestà Ferdinando II (senza esercizio perché Ferdinando non era più di questo mondo e i suoi discendenti avevano ricevuto il benservito) fosse capace di un’azione di questa fatta! Quasi che i giudici fossero gente da accettare deposizioni non vere! Altri volevano dare a intendere che, come uomo, il contino non poteva spaventarsi delle minaccie, e che non s’era mai dato il caso d’un annullamento di matrimonio per costrizione della volontà dello sposo. Non s’era ancor dato, e adesso si dava: oh bella, che ci trovavano da ridire? Non ci aveva trovato da ridire neppure il barone Palmi, che non aveva preso parte alla causa! Le male lingue rincaravano che il barone aveva lasciato correre per amore della figlia, la quale era in fin di vita; ma Pa