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I Vicerè 369

gli parlavano delle gesta del nipote Raimondo, faceva con le spalle e col capo un breve moto che poteva dir tutto, secondo l’umore dell’interrogato: approvazione, compatimento, biasimo. Ma oramai la situazione di Raimondo e di donna Isabella era legittima, e tutti i parenti, dopo l’esempio del principe, li trattavano come marito e moglie. In meno di sei mesi, la Corte vescovile, riconosciuto che il matrimonio era stato contratto per forza e con la paura, aveva liberato la Fersa.

Per quello di Raimondo con la Palmi c’era stato un poco più da fare. Da principio, aspettavano che il barone si decidesse anche lui a chiedere l’annullamento del matrimonio della figlia, asserendo di averla forzata a contrarlo; ma il barone, «testa di villan cocciuto» spiegava Pasqualino, aveva e avrebbe sempre detto di no, fino al momento di tirar le cuoia, quantunque sua figlia — felice memoria — si fosse finalmente posto il cuore in pace, specialmente sentendo che il primo matrimonio non esisteva più e che il conte aveva un figlio da legittimare. La signora donna Matilde — giustizia innanzi tutto! — nonostante le sue stravaganze era ragionevole in fondo, e sapendosi del resto malata, comprendendo che un po’ prima un po’ dopo, il conte sarebbe rimasto libero, s’era persuasa di pregare il padre che consentisse allo scioglimento del matrimonio civile. Del religioso, no, perchè aveva certi suoi scrupoli un po’ curiosi sulla santità del sacramento; ma basta! il contino si sarebbe contentato dello scioglimento civile. I conti eran però fatti senza la mulaggine del barone villano, il quale giurava di voler prima morta la figliuola che consentire alla liberazione del genero!... Ah, no? E allora il contino aveva chiesto lui d’essere sciolto, adducendo che la madre lo aveva costretto a prendersi quella moglie!

Sapevano tutti che donna era stata la principessa, con quanta prepotenza s’era imposta ai figli. Non aveva violentata la volontà di Chiara, per darle il marchese di Villardita? Così aveva violentata quella di Raimondo

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