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I Vicerè 357

di matrimonio era, per gli Uzeda, una cosa semplicissima: chi poteva negare ai Vicerè ciò che essi volevano? La loro volontà non doveva esser legge per tutti? Non possedevano essi tutti i mezzi materiali e morali per vincere gli ostacoli e le resistenze? Avevano clientele dappertutto, tra i borbonici e i liberali, in sacrestia e in tribunale: i nobili erano con loro per solidarietà, gli ignobili per rispetto: ognuno doveva essere superbo e lieto di render loro servizio. Bisognava, per riuscire in questa impresa, esser bene indirizzati; perciò volevano l’opera di Benedetto. Come la prima volta che glie ne avevano parlato, Benedetto titubava, arrestato dagli scrupoli, con la coscienza del male che gli facevano commettere, delle difficoltà enormi dell’impresa, del dispiacere che avrebbe fatto allo zio duca, tanto amico di Palmi; ma sua moglie insisteva a dimostrargli che gli scrupoli erano sciocchi, che anzi l’opera sarebbe stata meritoria.

— Se domani nasce un figlio? Sarà condannato a restare bastardo? Raimondo non riprende più sua moglie, certo com’è certa la morte. Allora? Meglio mettersi in regola con la legge e la società! Non dico bene?

E Ferdinando, rivolto al cognato:

— Ne dubiti forse?... Ma come ragioni?... Dov’hai la testa?

Benedetto tentava dimostrare che non ragionavano loro invece; che i figli già nati c’erano e che bisognava pensare a questi prima che ai nascituri, ma Lucrezia e Ferdinando gli davano sulla voce, tutt’e due insieme:

— C’è la famiglia della madre che pensa alle figlie! Nostro fratello le rinnegherà per questo?... E gl’interessi saranno regolati come vogliono i Palmi.... Se i matrimonii sono sciolti di fatto, perchè non scioglierli di diritto? Chi ci guadagna? La gente che ci fa sopra i suoi commenti!

E questo era il pungolo di Raimondo. Quanto maggiori difficoltà aveva incontrato nella via per la quale s’era