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I Vicerè 355

A poco a poco, per un colpo di tosse, per una digestione difficile, per un dolor di capo, per un leggiero prurito, per un formicolìo in pelle in pelle credette d’avere tutte le malattie; e quell’idea, ficcatasi nel suo cervello di solitario misantropo, aveva compita una devastazione. La morte, per lui, era questione di tempo; e giusto la paura di dover morire solo, il bisogno di vedersi dinanzi un viso amico lo aveva persuaso a prendere con sè il fratello.

Quando questi vide che non mangiava quasi nulla, che stava chiuso in camera, che certi giorni neppur si levava, cominciò a chiedergli che aveva, se si sentiva male; e sulle prime, quasi arrestato da una specie di pudore, egli si tenne sulle negative; messo alle strette, confessò. Aveva un catarro intestinale cronico, un’espansione della milza, una bronchite lenta; l’erpete gli serpeggiava nel sangue, il sistema glandolare gli s’era ingorgato. Come Raimondo rideva di quell’enumerazione, egli soggiunse, con voce triste e quasi con le lacrime agli occhi:

— C’è poco da ridere, sai! Credi che siano fantasie? So io quel che soffro!...

— Allora perché non chiami un medico?

— Un medico? Che possono fare i medici? Al punto in cui sono ridotto?

E non ci fu verso di persuaderlo. Allora entrò in iscena donna Isabella. Invece di contrariare il maniaco, prese a secondarlo: riconobbe l’esistenza e la gravità delle sue malattie, l’inutilità delle prescrizioni mediche; però, se i dottori ci perdevano il latino, non poteva egli provare almeno qualcuno di quei rimedii empirici che certe volte fanno miracoli?

— Quand’ero ragazza anch’io ebbi un catarro intestinale lungo e ostinato più del vostro. Sapete come andò via? Con l’insalata di lattughe!

E glie ne fece preparare un piatto, come contorno d’una gran fetta d’arrosto sanguinolento. Ferdinando si mise a mangiare come Cristo all’ultima cena: non aveva