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I Vicerè | 353 |
conte che il signor principe voleva restituirgli la procura e dargli i conti, una volta che era tornato in patria. Raimondo mandò via l’amministratore con un violento: «Ho capito; va bene!...» e un malumore terribile lo tenne a bocca chiusa per tutto un giorno. Donna Isabella, costernata, gli ripeteva: «Non vedi? Io ti porto disgrazia! Lasciami andare! Sarà di me quel che vorrà Dio....» E allora egli di rimando: «No; ho da vincer io!...»
Giusto Lucrezia, che oramai era tutta una cosa con la cognata della mano manca, fece una pensata:
— Giacchè non potete stare sempre all’albergo, e ora è il tempo della villeggiatura, perchè non ve ne andate alla Pietra dell’Ovo, da Ferdinando? Ha tanto posto; vi darà due camere. Starete con un parente e la cosa farà buon effetto.
Tutti approvarono la proposta. Nè Raimondo era ancora andato a trovar quel fratello, nè Ferdinando sapeva che Raimondo era tornato: dalla tanta indifferenza, dalla tanta diversità di educazione, di gusti, di vita, erano diventati peggio che estranei, ciascuno ignorava l’esistenza dell’altro. Lucrezia, incaricatasi delle trattative, andò alle Ghiande. Non vedendo il Babbeo da molti mesi, rimase. Egli era dimagrato come dopo una lunga malattia, aveva gli occhi infossati, la barba incolta, la voce fioca, una malinconia più nera dell’abituale.
— Venga pure.... è il padrone.... — rispose alla sorella, senza esprimere nessuna meraviglia pel ritorno di Raimondo, per la richiesta dell’ospitalità.
— Ma, sai, ti debbo dire una cosa.... — aggiunse Lucrezia. — Non è solo....
— È con sua moglie?
— Con sua moglie, sì.... come se fosse sua moglie....
E gli spiegò che aveva lasciato la Palmi, che era con la Fersa. Ferdinando stette ad ascoltarla guardando a destra ed a sinistra, quasi avesse smarrito qualcosa, poi ripetè:
I Vicerè — 23 |