non confessare l’errore, per l’antica paura d’un urto tra quelle due nature violente.... Suo padre, quand’ella si sentì più sola e perduta, la raggiunse. Il suo cieco amore per la figlia e il non meno cieco odio pel genero avevano reso vani i suoi propositi d’indifferenza; da lontano egli li seguiva di passo in passo, aspettando l’ora d’intervenire: e quando la misura fu colma apparve. E Pasqualino l’aveva proprio udito il colloquio fra suocero e genero, la spiegazione definitiva avvenuta, dopo pochi giorni di calma apparente, giù nelle scuderie del palazzo Rossi, per impedire che Matilde, che le bambine udissero. Alle ingiunzioni sordamente minacciose del barone che gli diceva: «Non vuoi finirla? Non vuoi?» Raimondo aveva risposto col tono consueto di sprezzante superiorità: «Di che intendete parlare? Mescolatevi di ciò che vi riguarda!...» Sì, di ciò che lo riguardava, rispondeva il barone, della pace di sua figlia che gli stava a cuore sopra ogni cosa, che voleva garantita a qualunque costo, a costo di portarsela via e di romperla per sempre.... «E chi vi trattiene? Andatevene pure!» Era appiattato nella stalla, Pasqualino, lì a costo, e se udiva i padroni non poteva vederli; ma a quella risposta del contino, al breve silenzio da cui era stata seguita, aveva sentito un certo senso di freddo in pelle in pelle. «Sì, ce ne andremo.... ma prima....» E allora Pasqualino accorse. Col sangue agli occhi, il pugno levato, il barone aveva già agguantato il genero; ma, senza il cocchiere gettatosi in mezzo, era bastato a Raimondo dire una sola parola: «Facchino!...» perchè tutt’a un tratto il suocero lo lasciasse. Sicuro, l’aveva detta il conte quella parola, Pasqualino non lavorava di fantasia, riferendola: e bisognava aver veduto l’effetto prodotto sul barone! Quel pezzo d’uomo che con un soffio avrebbe buttato a terra il genero piccolo e delicato, che lo avrebbe spezzato come una canna tra le mani grosse e villose, pareva diventato un ragazzo dinanzi al maestro: il contino Uzeda, il minuto e fiacco discendente dei Vicerè fulminava il barone contadino con quella parola,