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340 | I Vicerè |
IV.
L’impressione prodotta da quell’avvenimento fu tale che tutt’a un tratto Garibaldi e Rattazzi, Roma ed Aspromonte passarono in seconda linea. Il conte Uzeda con donna Isabella! All’albergo insieme, quasi fossero due innamorati fuggiti di casa per forzar la mano alle famiglie! E la contessa? E il barone? Com’era successo il pasticcio? E come sarebbe andato a finire?
Pasqualino Riso, reduce da Firenze, col padrone, fu assediato di domande. Pareva un signore, Pasqualino: abito tagliato all’ultima moda, biancheria finissima, anelli alle dita, scarpe verniciate, chè se non era la faccia sbarbata, ognuno lo avrebbe preso per un cavaliere. E nelle portinerie, nelle stalle, nei caffè dei cocchieri, nelle anticamere della parentela, diede tutte le spiegazioni desiderate. «Che il contino non potesse durarla a lungo con la moglie, egli l’aveva previsto da un pezzo, e tutti avevano potuto accorgersene l’anno innanzi, quando il signor don Raimondo era scappato lontano da quella donna che gli amareggiava l’esistenza. Lo sapevan tutti che egli voleva bene a donna Isabella; dunque la contessa, se fosse stata un’altra, che cosa avrebbe dovuto fare? Usar prudenza, per amore dei figli! Invece, nossignore: pianti, strepiti, accuse, minaccie, suo padre sempre tra i piedi: bisognava essere fatti di stucco per resisterci! Ma quantunque la pazienza fosse scappata una prima volta al povero contino, pure egli aveva ceduto — tant’era vero che il torto non stava dalla sua parte! — dimenticando il passato, rassegnandosi a tornar con lei perchè i figli ne andavan di mezzo. Gli uomini, si sa, non possono star sempre cuciti alle gonne delle mogli, e il contino non aveva fatto più di ciò che fanno tutti i mariti. Le donne accorte, quelle che hanno due dita di cervello, capiscono queste cose, chiudono un