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306 | I Vicerè |
tro?...» Impaurita, giungendo le mani per disarmarlo, ella addusse, tra i singhiozzi: «E le mie figlie?... Le mie orfanelle?...» Ma con impeto più selvaggio, egli proruppe: «Ah, il suo amor paterno?... Il bene che ha voluto alle sue creature?... Il sangue avvelenato a quella innocente?...» e con un fiotto di parole crude, minacciose, frementi, le disse la vita indegna di lui, ciò che ella non sapeva ancora, ciò che egli stesso non aveva saputo per tanto tempo, addormentato dalla vanità, dal folle orgoglio d’essersi imparentato con uno dei Vicerè. «Vuoi dunque pregarlo per giunta?... Vuoi ch’io vada a chiedergli scusa per te, per me, per quelle innocenti?... Non ti basta, sciocca che sei, l’esperienza di dieci anni?... Vuoi ricominciare a tremargli dinanzi?... Credi ch’io non sappia quel che hai sofferto?...» E come ella scrollava le spalle, rabbrividendo, egli gridò: «Non te ne importa?... Saresti capace di volergli bene ancora?...»
Sì, era vero. Ella non piangeva per l’avvenire delle sue bambine, non si sdegnava al ricordo delle proprie torture; se le aveva patite in silenzio, se aveva accusato soltanto quella donna, se non aveva mai trovato una parola di rimprovero per Raimondo, l’unica ragione consisteva nel bene che gli portava... «Dopo quel che t’ha fatto?... Non hai dunque capito che non l’ha mai ricambiato, il tuo bene? Che non chiede di meglio se non sbarazzarsi di te?... Sciocca che sei, gli vuoi dunque il bene del cane che lecca la mano che lo ha battuto?...» Sì, sì, così! il bene del cane per il padrone, la devozione d’uno schiavo per l’essere di un’altra razza, più forte, più alta, più rara. Sì, la sommessione del cane per il padrone; poichè, anche dopo l’onta estrema che le aveva inflitto, non ostante la rivelazione brutale, nonostante il legittimo sdegno del padre, ella pensava di non poter vivere lontana da Raimondo, di non poterlo lasciare a quell’altra....
Passarono così per lei lunghi, eterni giorni d’intima ambascia; il barone la trattava con ostentata freddezza,