parve molto grave. Voleva dunque dire che tutto era rotto fra il contino e sua moglie? Che si trattava già di separazione? Ma allora, il duca? Perché tornava anche lui?...
In città l’arrivo del deputato mise una rivoluzione, e le visite cominciarono a piovere al palazzo: prima di tutti don Lorenzo Giulente col nipote, poi alcune autorità, le rappresentanze di parecchie società politiche; poi una quantità di cittadini d’ogni classe, pezzi grossi, antichi amici e nuovi patriotti che venivano a salutare l’Onorevole, a ringraziarlo delle grandi cose fatte a Torino e, mentre c’erano, a chieder notizia degli affaretti particolari che gli avevano raccomandati. Come al tempo dell’elezione egli riceveva giù, nelle stanze dell’amministrazione, e ringraziava dei ringraziamenti, s’ammantava di modestia; ma, alle domande degli ammiratori, descriveva le sedute del Parlamento, la visita fatta a Vittorio Emanuele e al «povero» Cavour, la vita politica della capitale; e tutti stavano intenti a udirlo. Non aveva aperto bocca, in Parlamento, neppure per dir sì o no; ma in sala l’uditorio non lo spaventava, composto com’era di gente più o meno familiare che gli stava dinanzi in atto deferente; ed egli assaporava il suo trionfo, loquace quanto una pica vecchia, senza neppur sentire la fatica del viaggio. Cavour gli aveva promesso mare e monti: che peccato che il gran ministro fosse morto! Ma il governo era egualmente ben disposto verso la Sicilia: presto avrebbe messo mano a ferrovie, a porti, a grandi opere pubbliche. Per vegliare al mantenimento delle promesse, in quei giorni egli non avrebbe dovuto lasciare la capitale; ma era dovuto venire in fretta e in furia per certi gravi affari di famiglia.... per sistemare certe faccende.... Non si sbottonava, ma tutti comprendevano lo stesso. Le visite si seguirono fino a sera; quelli che volevano parlargli da solo a solo non si movevano, parevano decisi di restare a dormire con lui. Quando ne ebbe abbastanza, egli fece un segno a don Lorenzo, e questi condusse via tutti.