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270 | I Vicerè |
tanza; non tanto per sè stessa quanto per quella della educazione, dei principii morali e religiosi che implicava. Giulente era forse un buon giovane — non voleva infamarlo, senza conoscerlo — ma professava dottrine pericolose, parteggiava pei nemici dell’ordine sociale, del potere legittimo, della Santa Chiesa; e non si contentava di far ciò a parole, ma veniva agli atti. E una Uzeda, una nipote della Beata Ximena, una figlia del principe di Francalanza, avrebbe sposato costui? Come era possibile che s’intendessero? L’amore, l’accordo poteva regnare fra loro? E poi, lasciamo star questo, ma Giulente, benchè facoltoso, l’avrebbe mantenuta con quel lusso al quale era stata avvezza? Aveva idee ed abitudini signorili?... Dunque, la famiglia non si opponeva per puro capriccio, ma per ragioni valide e gravi. Però, dice, ella stessa doveva esser miglior giudice di tutto questo: poteva forse sentirsi animata da tanto amore da andare incontro anche ai disagi materiali dell’esistenza, da sperare di poter convertire il giovane. Opera meritoria, zelo encomiabile; ma la quistione principale, unica, era che senza l’approvazione, il beneplacito, la benedizione di quelli che rappresentavano le felici memorie di suo padre e di sua madre non poteva sperar pace e felicità.
Lucrezia non aveva risposto una sillaba.
— Che cosa vogliono, — disse, quando il confessore tacque, — per lasciarmelo sposare? Dicano ciò che vogliono; farò come vorranno.
— Ne ero sicuro! — esclamò il Domenicano con accento di gioioso trionfo. — Ero certo che una buona ragazza come te non avrebbe risposto altrimenti. E il principe, che ti vuol bene, ti sosterrà! Mettetevi d’accordo, siate sempre uniti: questo è il vostro interesse reciproco e la consolazione di chi vi guarda di lassù.
Così, quando il duca, che non aveva ancora parlato con la nipote della domanda di Giulente, glie la partecipò e le disse nel tempo stesso che Giacomo desiderava, prima che gli si desse una risposta, sistemare le