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I Vicerè 267

ai quali quelli scambiati tra facchini e donne di mal affare erano complimenti e zuccherini. E la sua rabbia aveva un bersaglio più vicino e più diretto nella nipote Lucrezia. Questa vipera osava ancora pensare a quella carogna! L’avevano allevata perchè li mordesse tutti quanti, insozzando il nome degli Uzeda, facendone ludibrio, sposando quella carogna!

— Ah, razza putrida e schifosa! Ah, porco Vicerè che la creasti!... Meglio sarebbe stato.... (mettere al mondo solo dei bastardi, era l’idea espressa dalle turpi parole) piuttosto che generare questo nipotame sozzo e puzzolente!...


Furono quelli i giorni più tremendi per Lucrezia. Erano tutti scatenati contro di lei: o non le rivolgevano la parola, o la colmavano d’improperii; donna Ferdinanda l’afferrava pel braccio dandole pizzicotti che portavano via la pelle; don Blasco un giorno per miracolo non se la messe sotto. Pallida e muta, ella lasciava passare la tempesta, chinava gli occhi, non piangeva, pareva non sentisse neppur dolore, quasi fosse fatta di marmo. Non si confidava a nessuno, non chiedeva aiuto allo zio duca che sapeva amico di Benedetto e fautore del matrimonio, non diceva una parola dei suoi tormenti a Ferdinando che veniva a palazzo unicamente per lei, lasciando in asso le sue bestie imbalsamate e da imbalsamare. Soltanto quando si chiudeva in camera con Vanna, per avere le lettere del giovane, le diceva, con un sorriso freddo, a fior di labbro:

— È inutile! Lo sposerò!...

Egli, frattanto, continuava a propugnare l’elezione del duca, con la parola in mezzo alle società, con gli scritti nell’Italia risorta e nelle stampe volanti intitolate: Chi è il duca d’Oragua, Un Patrizio patriotta, e via discorrendo. «Fin dal 1848 l’insigne gentiluomo schierossi contro il governo del Re Bomba, tanto maggiore il suo merito in quanto egli non aveva da rim-