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252 | I Vicerè |
Priore, che godeva la fiducia dell’Abate borbonico di tre cotte, e intanto era portato in palma di mano dai rivoluzionarii.... Che importava al principino di borbonici e di savoiardi? Egli voleva andar via dal Noviziato; perciò serbava un segreto rancore contro il padre che non l’aveva contentato. Del resto, con tutta la rivoluzione e la libertà e Vittorio Emanuele e l’abolizione del pane sopraffino a San Nicola non si scherzava, articolo privilegi. Giusto in quei giorni i Giulente avevano raccomandato all’Abate un giovanetto, loro lontano parente, rimasto orfano a Siracusa e venuto a Catania per farsi benedettino. Era tutto il contrario del cugino Benedetto, questo Luigi: non solo avversava la rivoluzione; ma aveva, col timor di Dio, una grande vocazione per lo stato monastico. E l’Abate, ritenendo provata la nobiltà della famiglia, l’aveva preso a proteggere e fatto entrare al Noviziato. Lì, i nobili compagni, senza distinzione di partito, se ne prendevano giuoco, lo beffavano, glie ne facevano di tutti i colori, giudicandolo indegno di stare fra loro; e tra i monaci gli stessi liberali torcevano il muso: Vittorio Emanuele andava bene; l’annessione e la costituzione meglio ancora; ma rinunziare ai loro privilegi, fare d’ogni erba un fascio, questo era un po’ troppo!...
La quistione dell’annessione, del miglior modo di votarla, appassionava in quel momento la pubblica opinione: alcuni volevano affidarne il mandato ad un’assemblea da eleggere, altri predicavano il suffragio diretto. Ogni giorno, col Governatore della città, e con don Lorenzo Giulente e i capi liberali, il duca sosteneva il plebiscito: «Il popolo dev’essere lasciato libero di pronunziarsi. Si tratta delle sue sorti! Vedete come han fatto nel resto d’Italia!...» Questo consiglio, mentre accresceva a mille doppii la sua popolarità, gli scatenava addosso più violento l’odio di don Blasco e di donna Ferdinanda, la critica dello stesso don Eugenio. Il ca-