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I Vicerè 241

dirmi un poco perchè vi fregate le mani? Avete vinto un terno al lotto? O credete che Garibaldi venga a crearvi Papi tutti quanti? Non capite, teste di corno, che avete tutto da perdere e niente da buscare?

Non sapeva darsi pace; l’avanzarsi vittorioso dei garibaldini lo esasperava; la formazione di squadre di ribelli, il fermento che regnava in città e nelle campagne lo mettevano fuori di sè. Ma il suo furore rovesciavasi particolarmente sul duca, che prendeva decisamente posto coi rivoluzionarii, fiutando già il cadavere. Il monaco diceva contro il fratello parole tali da far arrossire un lanciere, dava del traditore a tutte le autorità perchè, invece di reprimere il movimento, aspettavano di vedere, grattandosi la pancia, se Garibaldi sarebbe entrato o no a Palermo.

— A Palermo? Lanza lo schiaccerà! C’è ventimila uomini a Palermo! Ma bisogna dare esempi! Rizzar la forca in piazza del Fortino!

Invece, le squadre dei rivoltosi si riunivano tutt’intorno alla città, i liberali parlavano a voce alta, gli sbirri fingevano di non udire, i «benpensanti» erano costretti a nascondersi! E quella bestia del generale Clary, con tre mila uomini sotto i suoi ordini, non usciva dal castello Ursino, non faceva piazza pulita, lasciava che il panico dei «benpensanti» crescesse. La notte del 27, in mezzo al malcelato tripudio dei rivoluzionarii, arrivò la notizia dell’entrata di Garibaldi a Palermo; le squadre minacciavano di scendere in città per attaccare le truppe di Clary. Il duca invece raccomandava la calma, assicurava che i napoletani sarebbero andati via senza tirare un colpo. Quantunque egli assumesse un’aria importante e protettrice in famiglia quasi potesse far la pioggia e il bel tempo, Giacomo ad ogni buon fine prese le disposizioni per mettersi al sicuro al Belvedere. Lucrezia, vedendo quei preparativi di partenza, smaniava all’idea di lasciare Giulente, il quale le scriveva: «L’ora del cimento sta per sonare; io correrò al posto dove il dovere mi chiama, col nome d’Italia ed il tuo sulle

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