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160 | I Vicerè |
uomini e bestie, rassicuratosi sul pericolo del contagio, udito finalmente che al Belvedere facevano baldoria, non stette più alle mosse. Arrivò lì, fra colezione e desinare, annunziandosi con grandi vociate perchè nessuno gli apriva il cancello; visto poi il principino che gli veniva incontro con una bacchetta in mano la quale spaventava la cavalcatura, gridò al ragazzo, come se volesse mangiarselo: «Vuoi star fermo, che il diavolo ti porti?» e entrò finalmente nella villa esclamando: «Non c’è nessuno, qui dentro?... Che stillate?...» Al principe che voleva baciargli la mano, spiattellò: «Lascia stare queste smorfie....» e senza salutar nessuno, lo prese pel bottone dell’abito, lo trasse in disparte e gli domandò a bruciapelo:
— È vero che tuo fratello si giuoca la camicia che ha indosso? Com’è che puoi permettere una cosa simile?
— Vostra Eccellenza non conosce Raimondo? — rispose il principe, stringendosi nelle spalle. — Chi può dirgli nulla? Provi Vostra Eccellenza a dissuaderlo....
— Io? Ah, io? A me importa un mazzo di cavoli di lui e degli altri! Questo è il frutto dell’educazione che gli hanno data! E quell’altra buona a nulla di sua moglie? Tutto il giorno a grattarsi la pancia piena? E tua sorella? E quei pazzi? E tuo figlio?...
Non risparmiò nessuno: i discorsi di Chiara e del marchese relativi al corredo del nascituro gli fecero montare la mosca al naso, le notizie dei Giulente lo imbestialirono; ma quel che gli fece perdere il lume degli occhi fu la lettura del Giornale di Catania portato dal principe di Roccasciano nel pomeriggio, quando cominciarono a venire le prime visite. Subito dopo il bollettino del colera si leggeva in quel foglio: «La generosità dei nostri cospicui patrizii non poteva mancare, in tempi tanto calamitosi, di venire in soccorso della sventura. L’Illustrissimo don Gaspare Uzeda duca d’Oragua, benchè lontano dai suoi concittadini, pure ha fatto tenere al nostro Senato la somma di ducati cento da distribuirsi in soccorso dei più bisognosi....» Cento ducati