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140 I Vicerè

rava il duca da canto suo. — E se la guerra dura un altro anno? altri due, altri tre anni? Bisognerà mandar nuove truppe, far nuove spese, accrescere il deficit....

— A Messina aspettano l’arciduca Massimiliano.

— Verrà anche da noi?

Raimondo, a quella domanda di don Mariano, saltò su come morso da una vespa:

— E che volete che venga a fare? Per vedere l’elefante di piazza del Duomo? Voialtri vi siete fitto in capo che questa sia una città, e non volete capire che invece è un miserabile paesuccio ignorato nel resto del mondo. Donn’Isabella, dite voi: quando mai l’avete udito nominare, fuori?...

— È vero, è vero!...

Ella agitava con moto graziosamente indolente il ventaglio di madreperla e merletti, dando ragione a Raimondo contro il paese nativo; e la contessa Matilde non sapeva perchè la vista di quella donna, le sue parole, i suoi gesti, le ispirassero una secreta antipatia. Forse perchè l’udiva approvare il sentimento di Raimondo che ella perdonava al marito ma biasimava negli altri? Forse perchè scorgeva in tutta la persona di lei, nella ricchezza immodesta degli abiti, nell’eleganza affettata degli atteggiamenti, qualcosa di studiato e d’infinto? Forse perchè tutti gli uomini le si mettevano intorno, perchè ella li guardava in un certo modo, troppo ardito, quasi provocante? O perchè, una volta al suo fianco, Raimondo non si moveva più, pareva non volesse più andar fuori, non aspettar più nessuno?...

Ingolfato nel suo tema prediletto, egli parlava adesso a vapore, enumerando tutti i vantaggi della vita nelle grandi città, interrompendosi tratto tratto per domandare a donn’Isabella: «È vero o no?» oppure: «Parlate voi che ci siete stata!...» ripigliando a descrivere la grande società, gli spettacoli sontuosi, i piaceri ricchi e signorili. E donna Isabella a chinare il capo, ad aggiungere argomenti:

— Quando vedremo, per esempio, le corse fra noi?