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I Vicerè 139

via era un’altra: raccogliersi, restarsene tranquilli, curare le piaghe del ’48. Con lo Stato indebitato fin agli occhi, come poteva pensare a fare nuovi debiti? «È un principio d’economia politica...» e qui, col tono d’autorità portato da Palermo, un discorsone che faceva inghiottire botti di veleno a don Blasco, lardellato com’era di citazioni di discorsi parlamentari, infettato da teorie liberalesche. Il principe, udendo Fersa esprimere ancora una grande paura del colera, scrollava il capo:

— Se a Napoli hanno ordinato di spargerlo un’altra volta....

Come credeva alla iettatura, era incrollabile nell’opinione che il colera fosse un malefizio, un espediente di governo inteso a sfollare le popolazioni, a incutere un salutare timore nei superstiti. Dinanzi allo zio duca, sapendolo dell’opinione contraria, più «progressista», cioè che la peste venisse per correnti atmosferiche, taceva prudentemente; ma con Fersa si sbottonava, derideva le quarantene e tutti gli altri amminnicoli fatti per darla a bere ai gonzi.

— Non date retta a queste malinconie! — diceva frattanto Raimondo a donn’Isabella, a fianco della quale s’era seduto. — Andrete alla serata di gala?

— Sì, conte; abbiamo il palco.

— Che rappresentano? — domandò la principessa.

— L’Elvira di Holbein e Un’eredità in Corsica di Dumanoir. Peccato che voi non possiate sentire Domeniconi, principessa. Che artista! E che compagnia!

Anche don Eugenio rammaricavasi di non poter recarsi al Comunale, per far sapere che, in qualità di Gentiluomo di Camera, era stato invitato nei palchi dell’Intendente. Ma egli aveva da concludere un affare, quella sera: la vendita di certe terre cotte «importantissime», sulle quali avrebbe fatto un bel guadagno: aspettava anzi per questo il principe di Roccasciano, anche egli intenditore ed amatore di roba antica.

— S’ha un bel dire, quindicimila uomini, — pero-