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136 I Vicerè

esclamò donna Ferdinanda. — Qui, con la zia!... Ti rompono la testa con tutte queste storie, eh?... Rispondi loro: «Debbo forse fare il mastro di penna?»

Don Eugenio, udendo disprezzare le belle lettere, rispose:

— Bisogna studiare, invece!... L’uomo tanto più vale quanto più sa! E poi bisogna che tu faccia onore al nome che porti; tra i tuoi antenati c’è don Ferrante Uzeda, gloria siciliana!

— Don Ferrante? esclamò la zitellona. — Che fece don Ferrante?

— Come, che fece? Tradusse Ovidio dal latino, commentò Plutarco, illustrò le antichità patrie: templi, monete, medaglie....

— Aaah!... Aaah!... — Donna Ferdinanda era scoppiata in una risata che non finiva più, che si risolveva in spruzzi di saliva tutt’in giro. Il cavaliere rimase a bocca aperta, don Cono non sapeva che viso fare.

— Aaah!... Aaah!... — continuava a ridere donna Ferdinanda. — Don Ferrante! Aaah!... Don Ferrante sai che fece?... — disse finalmente, rivolta al nipotino. — Teneva quattro mastri di penna, pagati a ragione di due tarì il giorno, i quali lavoravano per lui; poi, quando essi avevano scritto i libri, don Ferrante ci faceva stampare su il proprio nome!... Aaah!... Che sapesse leggere, ci ho i miei bravi dubbi!...

Allora s’impegnò una gran discussione. Don Cono e il cavaliere sostenevano, a vicenda, che se l’antenato non aveva scritto materialmente le sue opere, ne aveva però dettato il contenuto; tanto è vero che le accademie di Palermo, Napoli e Roma lo avevano annoverato tra i loro socii; ma la zitellona interrompeva: «Fatemi il piacere!...» intanto che la cugina, scrollando il capo, affermava che, veramente, gli studii non erano stati il forte dell’antica nobiltà.

— Il forte? — esclamava la zitellona. — Ma fino ai miei tempi era vergogna imparare a leggere e scrivere! Studiava chi doveva farsi prete! Nostra madre non sapeva fare la propria firma....