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I Vicerè 129


Il desinare era già finito e Lucrezia, la principessa e Consalvo s’erano già levati di tavola, quando Raimondo rientrò. Mostrava di esser molto allegro e d’aver buon appetito. Alla domanda del duca, rispose che gli amici lo avevano trattenuto, che non s’era accorto dell’ora tarda.

— Del resto, qui desinate spaventevolmente presto! Nei paesi civili non si va a tavola prima dell’ave!

Il principe non gli rispose. Alzandosi da tavola mentre il fratello divorava la minestra serbata in caldo, disse al duca:

— Zio, vuol venire un momento con me? — e lo condusse nel suo scrittoio.

Stava di nuovo sull’intonato, come se dovesse stipulare un trattato. Chiuso a chiave l’uscio della stanza precedente, offerta una poltrona allo zio, egli stesso in piedi, cominciò:

— Vostra Eccellenza mi scusi se la disturbo dopo tavola, ma dovendo parlare di affari importanti e non volendo portarle via il suo tempo....

— Ma che!... — fece il duca, interrompendo il preambolo. — Tu non mi disturbi affatto.... Parla, parla pure.... — e accese un sigaro.

— Vostra Eccellenza può vedere ogni giorno — riprese il principe, — che vita fa Raimondo, e come, invece di darmi una mano a sistemar gli affari della successione, pensi a divertirsi lasciando tutto sulle mie spalle. Parlargli d’interessi è inutile: o non mi dà retta, o non capisce.... o finge di non capire.

Il duca approvava con un cenno del capo. Tra sè, giudicava veramente un po’ strane quelle lagnanze del nipote, che non avrebbe dovuto esser poi tanto scontento se il fratello non s’impacciava nelle queistioni dell’eredità e lo lasciava libero di fare a sua posta. E se Raimondo mostrava poca premura di partecipare agli affari, il fratello maggiore non ne aveva mostrata pochissima di renderne conto al coerede ed ai legatarii? Non era forse quella la prima volta che egli teneva a qualcuno della famiglia un discorso di quel genere?

I Vicerè — 9