Pagina:I Vicerè.djvu/130

128 I Vicerè

derideva le sue lacrime e le faceva quasi una colpa dell’amor suo, la stringevano a lui sempre più. No, sua figlia non le bastava, la creaturina non poteva consolarla, nessuno al mondo poteva consolarla, ella doveva perfino nascondere le proprie torture al padre, scrivergli che era contenta e felice, perchè egli non venisse a chieder conto a Raimondo di quella condotta, perchè tra quei due uomini non scoppiasse la guerra!... E ancora una volta ella s’era messa a sperare nel ritorno in Sicilia; la terribile casa degli Uzeda le parve ancora una volta un’oasi, poichè lì non aveva conosciuto il sospetto roditore come un verme. Quando da Catania scrissero a Raimondo di venir presto a casa, quando la stessa madre moribonda lo chiamò, ella fece di tutto per indurlo a partire ma vedendolo sordo alla voce della morente, sordo alle stesse ragioni dell’interesse, restare a Firenze, l’angoscia di lei s’era esacerbata, tanto aveva dovuto credere potenti le ragioni, i legami che lo trattenevano.... Giusto in quei giorni le sue viscere avevano avuto un nuovo fremito; ella era madre un’altra volta — fredda, cattiva madre, se non tripudiava a quella scoperta; ma come avrebbe potuto gioirne, quando il padre della sua creatura le cagionava tanta tristezza; quando, all’annunzio della nuova paternità, egli restava indifferente e quasi fastidito come per una nuova molestia?... Repentinamente, giunto il dispaccio che annunziava la morte della principessa, erano partiti, ed ella aveva tratto liberamente il respiro, chiedendo perdono al Signore della gioia che provava per causa d’una morte; ma l’implacata avversione dei parenti l’affliggeva ancora una volta come prova della insospettata malvagità umana; e adesso che Raimondo, senza rispetto per la memoria della madre, faceva ciarlare tutta la città con la sua vita sbrigliata, ella domandava tra sè, con lungo sconforto: «Quando, dove avrò pace?...»